Il Senato di Catania fu il massimo organo istituzionale della città di Catania, dotato di funzioni giurisdizionali, amministrative e anche legislative. Istituito nel 1411, in epoca aragonese , come avvenuto in altre città demaniali del Regno di Sicilia, inizialmente era formato dagli esponenti della nobiltà cittadina, e sul finire del XVIII secolo vi entrarono a far parte anche esponenti del ceto borghese. Fu attivo fino al 1818, anno in cui il senato cittadino fu sostituito dal Decurionato.
Composizione
Il Senato di Catania era costituito dalle seguenti cariche:
- il capitano di giustizia o giustiziere, che amministrava la giustizia criminale e civile nella città. Si trattava di un nobile e militare forestiero di nomina viceregia, ed era affiancato da tre giudici dell'appellazione e dal regio fisco;
- il patrizio, la massima carica istituzionale cittadina, avente le funzioni di balivo, si occupava dell'amministrazione politica e tributaria, e veniva nominato dai senatori;
- sei senatori, appartenenti alla nobiltà ed eletti per mezzo di liste limitate dai cittadini con il sistema dello scrutinio.
Storia
La città di Catania, fin dall'epoca normanna era sotto la giurisdizione feudale del Vescovo (a cui la popolazione si era ribellata per tre volte, nel 1195, nel 1207 e nel 1221), per la concessione fatta nel 1091 dal Granconte Ruggero al benedettino bretone Ansgerio, nominato vescovo della diocesi e creato signore feudale della città con annessa giurisdizione politica e penale sul territorio di Catania e del Castello di Aci. Nel 1239, sotto il regno di Federico II di Svevia, divenne città del Regio Demanio, e dunque comune acquisendo così autonomia politica e giudiziaria, e fu dotata di un suo parlamento. Lo status di città demaniale fu confermato nell'ottobre del 1396, in occasione del Parlamento di Siracusa, convocato dal re Martino I di Sicilia.
Nella prima metà del XIV secolo, nel Regno di Sicilia si assistette alla strutturazione delle diverse civitates e terre in base a un sistema relativamente omogeneo di norme e di istituzioni, che avvenne in parallelo ai mutamenti del sistema politico della monarchia. A quest'epoca, infatti, risalgono la maggior parte delle codificazioni delle consuetudini locali, l'estensione a tutte le comunità demaniali del sistema amministrativo basato sugli scrutinia degli ufficiali, l'ottenimento di alcuni privilegi fondamentali per i cives e gli habitatores delle comunità. La rete delle comunità urbane organizzate in universitates, e dotate dunque di personalità collettiva, espressa in istituzioni di carattere elettivo diveniva uno degli assi portanti dell'organizzazione del regno isolano. Al tempo stesso, i ceti dirigenti che avevano promosso e gestito tale trasformazione, provvedevano da un lato a consolidare un proprio spazio giurisdizionale che proteggesse e stimolasse le attività economiche urbane, dall'altro a rivendicare e ottenere un ambito fiscale proprio della città, parallelo a quello delle gabelle regie. Consuetudini, privilegi, fiscalità locale, istituzioni elettive divenivano il nucleo di identità cittadine che esercitavano un controllo sul territorio, contendendolo all'aristocrazia fondiaria, e si esprimevano essenzialmente attorno a un ceto dirigente composito ma che si presentava collettivamente come espressione delle città.
Nel corso del XV secolo, Catania conobbe un'espansione che fu anche quella di una élite che andava progressivamente occupando tutte le funzioni pubbliche e le prebende sia ecclesiastiche che civili. Fin dall'epoca normanna in città si era formata una classe aristocratica feudale, il cui nucleo era formato dalle famiglie Anicito, Pantica, Protopapa (di origine bizantina), Bononia e Salimbene (di origine lombarda). Documenti risalenti all'epoca del Vespro segnalano la presenza in città di famiglie forestiere, quali gli Asmundo di Malta, i Carioso (poi Caruso) di Licata, i Castello di Messina e di Patti, i Guerrera di Salemi, i Medico di Caltagirone, i Traversa di Siracusa, i Vitellino di Licata e gli Anzalone di Messina. Dopo il passaggio sotto il dominio aragonese, tra le famiglie presenti o stanziatesi a Catania, le famiglie Arena, Abello, Montalto, Taranto, Tedeschi, e altre, ma su tutte emerse la famiglia Alagona di origine catalana, a quel tempo la più potente in città. Più in là, sempre nel XIV secolo, la nobiltà feudale venne, a seguito di matrimoni e di acquisti, incrementata dalla presenza delle famiglie Bellomo, Campsores, Carioso, Marchesana, Massari, Paternò, Petroso e Traversa, che costituivano la classe più elevata della nobiltà civica, chiamata alla cariche più importanti, e particolarmente quello di balivo, poi divenuto patrizio. A questa categoria di nobili del ruolo balivare o patriziale appartenevano anche i Bonifazio, Castello, i Cutelli, i Gioeni (provenienti da Termini), i Munzone, i Pesce, i Riccioli, feudatari fino al 1299, e famiglie di militi o rami cadetti di famiglie feudali, come i Gravina e i Ventimiglia. Alla nobiltà feudale, nel corso del XV secolo si aggiunsero altre famiglie, quali i Bonajuto, famiglia di curiali e forensi, i Campisano di Siracusa, i Santangelo di nobiltà dottorale, gli Scammacca, famiglia di medici fisici, i Tornabene, famiglia borghese mercantile di origine toscana, e altre. I membri delle menzionate famiglie, ricoprirono tutte le cariche del Senato di Catania, ma di queste primeggiò su tutte quella dei Paternò, in particolare i rami dei Paternò di Raddusa e Paternò Castello.
Nel 1412, il re Alfonso V d'Aragona, accrebbe i privilegi di cui la città godeva, e fu ufficialmente istituito il Senato di Catania, come avvenuto nelle altre città demaniali siciliane, e per decisione dei giurati del consiglio detti senatori, fu concesso ai cittadini lo scrutinio, ovvero il diritto di eleggerli, il quale prese nome dal bussolo estratto a sorte. Questo sistema, ripreso e sospeso più volte, rappresentava il luogo della decisione e della legittimazione collettiva del governo municipale. Il re Giovanni II d'Aragona, nel 1459, ad istanza dell'Ambasciatore di Catania, stabilì che il consiglio generale della medesima avesse dovuto eleggere 30 soggetti detti "imbussolanti", dai quali si sarebbe fatta nota di quei nobili che dovevano sostenere le cariche civiche; quel numero di 30 fu poi ristretto a soli 20. Questi 20 soggetti, non solo avevano facoltà ab antico di promuovere quei soggetti che dovevano sostenere la carica degli Uffizi nobili; ma anche godevano il dritto privativo di poter ammettere alla nobiltà coloro che di quella si rendevano capaci. Tale regolare e stretta ammissione nel corpo nobiliare di Catania, detto Mastra Nobile, fece sì che in ogni tempo, la primaria nobiltà di Sicilia, ricercasse come onore l'esservi ammessa. Queste regole vennero ulteriormente ristrette in tempi successivi, e a maggiormente comprovare il diritto privativo dei 20 imbussolanti si decise nel 1602, che per l'ammissione di una famiglia nella Mastra Nobile dovesse occorrere l'unanimità dei voti, e ove uno solo, sui 20, fosse discrepante, l'elezione dovesse considerarsi nulla. Tale deliberazione fu sancita nel 1614 dal Tribunale della Regia Gran Corte.
Nel marzo 1639, il viceré di Sicilia, Francisco de Melo, conte di Assumar, in occasione del parlamento riunitosi a Messina, impose al Senato di Catania la vendita dei casali che sorgevano nei dintorni della città, al fine di raccogliere denaro per finanziare le tante guerre del Re di Spagna. Il Senato si oppose alla decisione assunta dal Viceré presentando ricorso al Tribunale del Regio Patrimonio, ma quest'ultimo, malgrado il voto contrario dell'avvocato fiscale Mario Cutelli, catanese, diede il proprio assenso alla vendita dei casali. I casali venduti a privati, affaristi e mercanti implicati nei traffici finanziari con cui il viceré cercava di far fronte alle continue richieste di denaro da parte del governo spagnolo tra il 1640 e il 1645, furono Battiati, Camporotondo, Mascalucia, Misterbianco, Mompileri, Pedara, Plachi, San Giovanni Galermo, San Giovanni la Punta, San Gregorio, San Pietro e Tremestieri. Nel 1652, il Senato di Catania accumulò attraverso le imposte pagate dai suoi cittadini un'ingente somma di denaro di 149.500 scudi per la ricompra dei suddetti casali venduti, che fu resa possibile grazie all'impegno del Cutelli e al sostegno dato dal vescovo Marco Antonio Gussio presso il Tribunale della Regia Gran Corte. Ma dopo due anni, nel 1654, i casali furono rivenduti agli stessi compratori.
L'Eruzione dell'Etna del 1669, che con la lava seppellì i casali attorno al vulcano, raggiunse anche Catania, che oltre ad avere recato distruzioni, ebbe anche un impatto devastante sulla sua economia. Per questa ragione il Senato di Catania, che ottenne dalla Curia papale l'esenzione da ogni gabella spettante al Vescovo, inviò a Madrid quale suo ambasciatore Vincenzo Paternò Mirabella, barone di Raddusa, che dal re Carlo II di Spagna ottenne per la città l'esenzione da tutti i tributi per dieci anni. Nel più terribile e catastrofico evento sismico del 1693, Catania subì morte e distruzione come mai era accaduto in precedenza, e molti furono i morti tra coloro che facevano parte del ceto dirigenziale della città: dei componenti del Senato sopravvissero soltanto il patrizio Martino Cilestri e il senatore Pietro Moncada dei baroni della Ferla. Fu eletto capitano Francesco Maria Paternò Lago, barone di Raddusa, il Cilestri confermato patrizio, e vicario fu nominato lo zio di questi, il canonico Giuseppe Cilestri Ventimiglia, tesoriere della cattedrale.
Nel 1680, Francisco de Benavides, conte di Santo Stefano, in qualità di Viceré di Sicilia emanò due decreti: il primo stabiliva che negli impieghi nobili della Città di Catania non avesse potuto aver parte alcuno, anche se nobile, che non fosse inscritto nel ruolo ossia Libro Rosso della detta città; il secondo restringeva ancora le formalità dell'ammissione al detto Libro, e stabiliva che d'ora innanzi, ogni pretendente dovesse prima rivolgersi al Viceré ed esporgli le prove della sua nobiltà, dopodiché il Viceré stesso avrebbe proposto al Senato di Catania, composto di 9 ufficiali elettori, e se un solo di questi avesse dato voto contrario, il nobile proposto sarebbe stato escluso dall'iscrizione fra la Nobiltà Catanese, senza che fosse possibile ottenere dispensa per mezzo di qualsiasi ministro o tribunale.
Nella seconda metà del XVIII secolo, il Senato di Catania ebbe una lite giudiziaria con Alessandro Clarenza, marchese di Salazar, cittadino di Paternò stabilitosi in città, il quale ambiva ad essere iscritto nella Mastra Nobile di Catania. Il Clarenza, era stato ammesso dopo richiesta fatta al viceré il duca Eustachio di Laviefuille, aveva imposto al Senato di Catania tale ammissione attraverso il Protonotaro del Regno. Nove elettori del Senato si riunirono ed esaminate le qualità del Marchese, fu fatto circolare lo storico bussolo, e numerate le palle votarono tutti contro. Questo risultato fu trasmesso con le forme di legge al Viceré, che ne prese atto. Il Marchese di Salazar propose successivamente ricorso al Protonotaro del Regno che si espresse favorevolmente; protestò vivamente il Senato Catanese, che il 9 settembre 1750 presentò alla Suprema Giunta di Sicilia in Napoli, un elaborato memoriale firmato dai giureconsulti Carlo Franchi e Giuseppe Maria di Lecce, nel quale faceva valere i suoi diritti e nel tempo stesso dimostrava la nessuna nobiltà del Marchese Chiarenza, cui né l'origine da quel Pietro Chiarenza (che pare avesse pubblicamente esercitato il mestiere del ciabattino in Paternò), né gli acquistati titoli di barone e di marchese conferivano qualità neanche per essere ascritto in un corpo di nobiltà separata, e tanto meno in quello di nobiltà chiusa com'era l'antichissima Mastra di Catania. A tale memoriale, replicò a nome del Clarenza, l'avvocato Giacomo de Antoniis con altro memoriale dato in Napoli il 12 gennaio 1751, nel quale pochi argomenti poteva trarre a combattere l'allegazione catanese. Nonostante ciò, il Clarenza fu comunque ammesso ai pubblici uffici della città etnea, su imposizione del governo, e il medesimo nel 1753 ottenne l'ufficio di capitano di giustizia.
Il Senato di Catania, quale organo amministrativo rimase in vigore fino agli inizi del XIX secolo, in epoca borbonica: l'articolo 108 del Real Decreto emanato il 17 ottobre 1817, stabilì la soppressione dei senati civici in Sicilia e la loro sostituzione con i decurionati.
Nel 1944, l'incendio scatenato da una sommossa popolare di gente stanca della guerra (capeggiata dagli indipendentisti siciliani che volevano principalmente l'abolizione della leva militare obbligatoria) che ha devastato il palazzo municipale di Catania, comportò la distruzione e la perdita dei documenti storici prodotti dal senato della città etnea, quali gli Atti degli antichi Giurati e del Senato di Catania dal 1412 al 1819.
Elenco dei Capitani di giustizia, dei Patrizi e dei Senatori (1413-1759)
Note
Bibliografia
- F. M. Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca, Della Sicilia nobile, vol. 3, Palermo, Stamperia de' Santi Apostoli, 1759, pp. 285-333.
- Abate F. Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania, 1829.
- M. Gaudioso, Genesi ed aspetti della "Nobilità Civica" in Catania nel secolo XV, in Bollettino Storico Catanese, n. 6, Catania, Regia Deputazione di Storia Patria per la Sicilia - Sezione di Catania, 1941.




